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UNA VITA NON BASTA
(ITINERAIRE D'UN ENFANT GATE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 27 luglio 1989
 
di Claude Lelouch, con Jean-Paul Belmondo, Richard Anconina, Marie Sofie L. (Francia, 1988)
 
L'"incomprensione" fra la critica e l'autore di UN HOMME ET UNE FEMME dura da molti anni, da quell'ormai lontano 1966 nel quale Lelouch vinse la Palma d'Oro. Da allora il regista ha firmato molte piccole e grandi produzioni, in gran parte coronate da notevoli successi di pubblico, quasi tutte lamentate quali oggetti di persecuzione da parte di chi scrive di cinema.

Ma le persecuzioni - come sappiamo - hanno solitamente per oggetto destini più tragici di quelli dei cineasti. Quello di Lelouch era di destinare un mestiere brillantissimo, imparato dalla gavetta, a creare delle opere popolari. Niente di male, al contrario. È il termine popolare, semmai, che va discusso. Per il cinema di Lelouch esso si traduce solitamente in una in bella immagine, una storia commovente, dei personaggi di sogno - possibilmente di lusso -, delle musiche orecchiabili. Un cinema, insomma, di fastidi grassi.

Eccolo, il problema: tra questa vicenda di un grosso industriale che va in crisi, rompendo i ponti con la famiglia fingendosi morto in navigazione solitaria, e quello di CHARLES MORT OU VIF, c'è un mare - è il caso di dirlo - di differenza. E la differenza è nell'impegno morale: quasi sempre, i problemi e personaggi lelouchiani sono vuoti. Futili e brillanti come il quadro estetico nel quale essi sono inseriti: una cornice luccicante, fatta di giravolte della cinepresa su sfondo seducente come in un clip.

Da quando il cinema è cinema, vicenda ed ambiente, personaggi e sfondo si significano a vicenda. E in Lelouch, soprattutto nel Lelouch delle grandi ambizioni, le due dimensioni conducono alla grandiloquenza, al conformismo, al fumetto alla moda. ITINERAIRE D'UN ENFANT GATÈ è come spaccato in due: una prima ora durante la quale il procedimento si sbizzarrisce negli abituali giochi di prestigio. Ed una seconda, nella quale il mestiere di Belmondo e di Anconina, ed una maggiore umiltà del regista approdano a qualcosa che sentiamo più genuino. Il film diventa una specie di commedia naturalistica, gli attori credono in ciò che fanno (impagabile la lezione di dizione e di comportamento di Belmondo e Anconina), affiora il sorriso, la delicatezza, quella pittura dei sentimenti che finalmente si osa definire popolare. Così, oltre che un film rotto in due (toni), ITINERAIRE finisce col diventare uno dei più godibili del nostro enfant terrible.


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